domenica 26 gennaio 2014

Tuscolo trasformato in circuito per auto da corsa: alla faccia della tutela

Sembra incredibile ma Domenica 26 gennaio, chiunque avesse voluto recarsi al Tuscolo non poteva farlo.  La strada provinciale che dalla via Anagnina sale verso il Tuscolo, era interdetta al traffico veicolare. Motivo? Era in corso niente di meno che una gara di rally. Veloci e rumorosissime automobili sfrecciavano lungo la strada provinciale, tra boschi, prati e colline.
Luoghi di pregio paesaggistico, ambientale e archeologico erano incredibilmente trasformati in un circuito per auto da corsa. Un fatto assurdo, ingiustificabile sotto tutti i punti di vista.
È appena il caso di sottolineare che il Tuscolo è una delle aree di maggior pregio dei Castelli Romani, certamente di Grottaferrata, soggetto a tutti i vincoli possibili, di proprietà di un Ente pubblico come la Comunità Montana dei Castelli Romani che ne ha fatto un Parco Archeologico con grande enfasi, e soprattutto è inserito all’interno del perimetro del Parco Regionale dei Castelli Romani, un Ente cioè che ha, per legge, l’obiettivo specifico di tutelare l’ambiente naturale e gli equilibri eco sistemici.

Immaginiamo che gli organizzatori del “Rally del Tuscolo” abbiano ottenuto tutti i permessi e le autorizzazioni del caso visto anche la presenza della Polizia municipale. Ci chiediamo come sia stato possibile autorizzare una gara che ha un impatto ambientale così pesante sugli equilibri naturali, anche solo considerando la presenza di una consolidata fauna selvatica. Impedire ai cittadini di poter fruire un luogo generalmente molto frequentato specie la domenica mattina per consentire ad un gruppo, peraltro esiguo, di appassionati di scorazzare in lungo e in largo con le loro automobili da corsa, ci indigna profondamente. Chiediamo ai responsabili degli Enti preposti alla tutela, come sia stato possibile autorizzare lo svolgimento di una così pesante manifestazione per auto da corsa in un ambiente come quello tuscolano che dovrebbe, al contrario, essere proprio salvaguardato da simili eventi.

giovedì 9 gennaio 2014

E SE DOMANI (l'ardua strada delle riforme)

"E io chiedo agli economisti politici, ai moralisti, se hanno già calcolato il numero di individui che è giocoforza condannare alla miseria, al lavoro eccessivo, alla demoralizzazione, all'infanzia perenne, alla più abietta ignoranza, alla disgrazia ineluttabile, alla penuria assoluta, per produrre un ricco."
Con questa domanda retorica Almeida Garrett, scrittore e uomo politico portoghese vissuto nelle prima metà dell'ottocento, poneva la questione della iniqua distribuzione della ricchezza nella società del suo tempo. Non so se all'epoca esistessero strumenti idonei per formulare una risposta numerica all'interrogativo e se, eventualmente, qualcuno lo abbia fatto, ma la necessità di porre la questione derivava dalla consapevolezza che si trattava di grandezze enormi, socialmente inaccettabili.
Oggi la domanda è oltremodo attuale. Viviamo in un contesto socio- economico diverso, formalmente democratico, ma condizionato da poteri enormi che si intrecciano a formare una inesorabile rete da pesca nel grande mare dell'umanità: dal paradosso cinese alle favelas brasiliane, dal terrorismo islamico alla questione palestinese, dalla pretestuosa guerra irachena alla repressione siriana e così via guerreggiando, tutto è funzionale alla conservazione di preminenza da parte delle oligarchie economiche mondiali. Ma di fronte a questa situazione e ad una crisi economica di vaste proporzioni e ad una deriva politica che occorre in qualche modo arginare, soprattutto in Italia, non si può evitare di interrogarsi sul modello economico, sociale e culturale che le comunità hanno necessità di costruire per diritto di sopravvivenza.
Alla domanda di Garret possiamo oggi fornire una risposta precisa. Da uno studio della Banca d'Italia, reso noto nel marzo del 2012, risulta che nel nostro Paese le dieci persone più ricche posseggono i beni di tre milioni di italiani poveri! Si, 10 su 3.000.000! Potremmo quindi rispondere che in Italia per fare un ricco dobbiamo condannare alla povertà trecentomila persone, una città come Venezia. Ma a rendere ancora più odiosa la cosa è l'indifferenza o la connivenza della politica che, oltre a non promuovere adeguati provvedimenti di contenimento delle ingiustizie sociali, ha tollerato, e spesso incentivato privilegi e furfanterie di ogni genere (top-manager che mandano in dissesto le aziende e se ne vanno con liquidazioni milionarie, dirigenti che in venti anni vedono gonfiarsi le proprie retribuzioni da 25 a 400 volte quella dei loro dipendenti, tesorieri di partito che, a vantaggio personale o a copertura di consorterie, accumulano patrimoni e gozzovigliano utilizzando i copiosi e ingiustificati rimborsi elettorali, ecc. ecc. - è superfluo qui ricordare tutto quello che quotidianamente i media ci raccontano).
In Italia c'è molto da fare. E i partiti cosa fanno? Ma i partiti di sinistra cosa fanno? Parlano di riforme, ma di quali riforme? Dimenticano che il termine "riformismo" è stato coniato per identificare lo strumento da utilizzare per costruire il socialismo con metodi non rivoluzionari. Successivamente per riforme si è inteso riferirsi a trasformazioni profonde dell'ordinamento sociale, ma oggi invece s'è confuso questo termine con un normale prodotto legislativo per cui tutti, chi più e chi meno, si possono definire riformisti ( abbiamo avuto persino la riforma Gelmini!).
Le riforme, quelle vere, comportano costi economici e sociali che a qualcuno debbono essere accollati. Ma se a pagare sono sempre gli stessi, le categorie più deboli, più agevolmente attaccabili, meno abbienti, ci si dovrà pur far carico di contrastare e porre rimedio a questa iniquità. Né è possibile accettare, nella migliore delle ipotesi, che a pagare non sia nessuno, perché ciò vorrebbe dire che si spacciano per riforme aggiustamenti tecnici che riforme non sono.
E i partiti cosa fanno? Prendiamo il PD, che dovrebbe essere l'asse portante di un governo delle sinistre o, più probabile, di centro-sinistra, ma forse di centro-sinistra-centro (tanto per orientarsi come con una bussola). Esso è nato con il dichiarato intento di rappresentare la vocazione riformista della tradizione politica italiana di impronta laica, socialista e cattolica. Quasi una riedizione del "compromesso storico", il progetto di Berlinguer teso ad unire le forze popolari di sinistra e di centro su posizioni autenticamente democratiche per scongiurare soluzioni autoritarie e tentazioni golpiste. La vicenda cilena aveva accelerato quella elaborazione, ma la differenza con la proposta del PD è sostanziale: mentre per Berlinguer il nuovo corso politico, sostenuto da un crescente consenso verso il PCI, sarebbe dovuto avvenire con un coinvolgimento emotivo delle masse popolari, rappresentate dai maggiori partiti e che sarebbero state artefici e beneficiarie del patto sociale (un sogno irrealizzato), invece il PD è stato creato con una fusione a freddo tra nomenklature e apparati politici distanti dalle istanze popolari, e distanti perché impegnati esclusivamente a intessere rapporti di potere, e per di più con una alleanza limitata ad una parte minoritaria della ex DC. E così il PD arranca tra contraddizioni interne, esaltanti primarie e brucianti sconfitte. Utilizza il riformismo come paravento per nascondere un deserto di progetti e di ideali. E Renzi? Bah, la strategia forse è buona, ma la meta?
Si può anche decidere di abbandonare definitivamente l'idea di un modello socialista, ma allora lo si dica chiaramente e non si mascheri la mancanza di riferimenti con la foglia di fico del riformismo (emblematica è la vicenda della collocazione del PD nell'ambito dei gruppi del parlamento europeo).
Alessandro Gilioli, nel suo pamphlet Chi ha suicidato il PD, con riferimento al veltroniano "ma anche", sostiene che a mescolare l'acqua calda con quella fredda si ottiene soltanto acqua tiepida. La cosa è ovvia, ma non necessariamente inutile. A volte può servire anche l'acqua tiepida, però per cuocere la pasta occorre l'acqua bollente e per raffrescare la frutta occorre l'acqua fredda. Il problema sta tutto qui: non si può essere sempre tiepidi, moderati, ambiguamente pragmatici.
Ripensare il modello economico, i caratteri della società, la qualità dell'ambiente e delle persone prima che il tessuto sociale venga definitivamente corrotto è un imperativo. Qualcuno può ritenere che si tratti di rigurgiti ideologici? Parlare di nuovi equilibri, nuovi orizzonti dove creare condizioni più umane, più giuste, è un fatto ideologico? Io direi piuttosto, e più semplicemente, che è un dovere politico cui adempiere. La sinistra non deve per forza coincidere con posizioni ideologiche, però non può rinunciare al ruolo storico di farsi carico del cambiamento.
È vero, nessuno può chiamarsi fuori. Separare con nitidezza le responsabilità è impossibile. Oltre alle gravi colpe della politica quasi tutti, o forse tutti, direttamente o indirettamente, chi poco e chi molto, abbiamo contribuito ad aggravare i problemi della nostra società: in cabina elettorale o astenendoci dal voto, con l'evasione fiscale o non pretendendo lo scontrino fiscale, con i concorsi truccati o trovando una corsia preferenziale per un esame clinico, con l'abusivismo edilizio o con l'inquinamento, con il massimalismo o con l'indifferenza.
C'è un presente che non ci piace e in cui stentiamo a riconoscerci, anche se abbiamo contribuito a costruirlo. La consapevolezza di questa corresponsabilità deve costituire la forza per un impegno morale e sostanziale verso il rinnovamento. Certo non siamo tutti uguali, le diversità comportano inevitabilmente differenze di condizione, anche economica, ma ciò che la sinistra non può accettare è che in ragione di modelli socio-economici quelle diversità vengano accentuate o utilizzate per compiere atti di sopraffazione.
Bisogna costringere le forze politiche, o i residui brandelli di esse, a prendere atto che occorre una svolta decisa e decisiva. Un nuovo pensiero deve farsi strada e va sospinto: e se il futuro veramente stesse soltanto in una compiuta giustizia sociale? Ripartiamo da qui.

Ruggero Capulli

sabato 4 gennaio 2014

A proposito di elezioni grottaferratesi

Fabrizio Giusti sul Mamilio riflette sulle prossime elezioni grottaferratesi. La sua tesi è questa: Grottaferrata è un paese in crisi. Ristorazione, Commercio, Mercato immobiliare sono fermi. Nella cittadina più ricca dei Castelli la crisi si fa sentire eccome! Dunque, conclude Giusti, parlare di Urbanistica e di Rifiuti zero in queste elezioni conta poco; occorre non solo dare risposte politiche ma sociali ed economiche; (come se le risposte “sociali ed economiche” non presuppongano scelte che, inevitabilmente, sono politiche).
L'analisi di Giusti merita però attenzione.
È proprio vero che Urbanistica e Rifiuti siano argomenti che c'entrano poco nel confronto amministrativo delle prossime elezioni grottaferratesi? Che tipo di risposte possono dare i Comuni alla crisi generale considerato che sono proprio loro i primi a subire le conseguenze delle inique leggi di stabilità che tagliano risorse e servizi?
Se gli esercizi commerciali chiudono non si può addossarne la responsabilità ai Comuni. La crisi è una crisi di sistema, di modello economico globale; pensare si possa tornare alla situazione pre-crisi è pia illusione. Senza un profondo cambiamento degli stili di vita non si andrà da nessuna parte. Ridefinire le priorità, mettendo al primo posto sostenibilità ambientale, sobrietà, lotta allo spreco, qualificare piuttosto che quantificare; tutti valori immateriali che fanno la differenza e sui quali i Comuni possono dire la loro.
Affermare che in queste elezioni la “discussione sull'urbanistica sia fuori luogo” è un errore. Grottaferrata ha un PRG vecchio di 40 anni. L'incapacità di aggiornare questo strumento urbanistico per renderlo adeguato alle esigenze dell'oggi, ha comportato guasti enormi al territorio, una urbanizzazione diffusa ed estensiva con maggiori costi sociali per servizi ed infrastrutture che alla fine pagano tutti i cittadini. Oggi a Grottaferrata, malgrado la caduta verticale del mercato immobiliare e l'invenduto, sono tra 150 e 200mila i metri cubi già richiesti dai privati per l'edificazione. Significa 1000/1500 abitanti, a cui vanno poi portati i servizi e le infrastrutture con elevati costi che paghiamo noi cittadini; e chi altri sennò! Già perché gli oneri di urbanizzazione, vengono utilizzati dai Comuni per le spese correnti, visto che non ci sono soldi. Tappare un buco oggi per averne dieci domani. Questa è politica della lungimiranza o è un suicidio amministrativo programmato? Dunque andare a prevedere ulteriore consumo di suolo per costruire ulteriori case per avere ulteriori abitanti per consentire ulteriori guadagni per pochi, non è la strada da perseguire, proprio il contrario: Consumo Zero di suolo.
L'abusivismo è un fenomeno deleterio; è comunque una pratica costosissima per i cittadini, perché l'italianissimo vizio di mettere sempre qualche pezza a posteriori - leggi condoni o pseudo perimetrazioni - non solo premia chi non rispetta le regole (e questo è disastroso sul piano etico ed educativo) ma “costringe” la Comunità dei cittadini a caricarsi i costi dell'abusivismo in termini sia dei soliti servizi sia delle solite infrastrutture. Lotta irrinunciabile e senza quartiere all'abusivismo è la strada da perseguire.
Le questioni “urbanistiche” sono tante e complesse, ma già questi due esempi generali fanno comprendere quanti soldi pubblici ci sono in ballo e dunque, parlarne e prendere posizione, non mi pare proprio sia “fuori luogo”.
Vogliamo parlare di rifiuti? Del fatto che se si riuscisse ad ottenere un risultato del 75% di raccolta differenziata si potrebbe conseguire un abbattimento dei costi a vantaggio di tutti? A differenza di quello che abbiamo subito nella passata amministrazione nella quale non si è riusciti neanche a trovare un'area per l'isola ecologica dopo averne cambiate tre? La proposta del Circolo Zero Waste sui Rifiuti Zero è una risposta su come si possa far risparmiare denaro ai cittadini, su come si possono avviare sistemi di recupero del rifiuto per creare posti di lavoro, insomma su come si possa trasformare i Rifiuti da problema a risorsa. Capisco che il tema appaia poco avvincente ma anche qui, stiamo parlando di “ciccia”, delle tasche – e degli interessi - dei cittadini.

Grottaferrata ha delle vocazioni naturali: cultura, cibo, vino. È innanzitutto su queste vocazioni che andrebbe declinata la politica e le scelte amministrative anche al fine della creazione di un indotto che offra opportunità di lavoro per tutti: la valorizzazione e promozione dei valori di Grottaferrata. Una corretta politica di gestione territoriale ne è il presupposto fondamentale. Poi occorre lavorare per costruire proposte credibili e realizzabili che traducano in realtà un'idea di città nuova.

Enrico Tullio Pizzicannella

giovedì 2 gennaio 2014

Natale è passato

di Giovanni Pellegrini


Natale è passato.
Negli ovili non c’è più un abbacchio. Restano le pecore e una moltitudine di pecoroni, di destra e di sinistra, che cercano un pastore e immancabilmente finiscono sul bancone di un macellaio pensando che gli porti fortuna.
I pecoroni che sono finiti sul bancone di Grillo si contano ormai sulle dita. Erano un esercito, le cazzate del loro capo e dei loro rappresentanti li hanno ridotti a un manipolo e dei manipoli hanno l’arroganza e la prepotenza. Basta frequentare il loro blog e non si ha più bisogno del bicarbonato per digerire o vomitare tutto quello che si è mangiato per le feste. Insulti, minacce di morte, calunnie vergognose a chi non la pensa come loro. Pensatela come vi pare, ma se l’alternativa è questa meglio uno, dieci, cento, mille Letti, dove si dorme, ma qualche volta si scopa pure.
Natale è passato.
I commercianti si lamentano che i pecoroni non comprano più come una volta. Erano pronti, come ogni anno a tosarli per benino, ma gli è andata male. Le pecore, sfinite dalla miseria, non danno più lana. Era ora. Per due motivi, il primo perché forse è il momento di riscoprire una virtù di cui si sono perse le tracce dall’antica Roma, la probità. Il secondo perché dopo essersi spropositamente arricchiti a spese delle pecore per anni, con il raddoppio dei prezzi coll’entrata nell’euro e con l’evasione sistematica è arrivato il momento di attingere al gruzzolo che si sono portati alle Caiman.
Natale è passato.
Non me la sento, però, di farvi gli auguri. A che pro? Tanto nessuno potrà sottrarvi al vostro destino. Però no, un augurio ve lo posso fare: Scoprire l’utilità dell’inutile. L’ho scoperta leggendo un delizioso saggio che mi hanno regalato per Natale. Cercando l’utile perdiamo la capacità di riconoscere l’inutile che è necessario per arrivare all’essenziale, per capire il perché siamo al mondo e come poterci stare felici o almeno in modo piacevole.
Secondo la concezione prevalente utile è il profitto, il denaro, la ricchezza, il potere, che ci consentono di avere molte cose. Inutile è la letteratura, l’arte, la filosofia, la poesia, che consentono oltre che a conoscere bene se stessi anche a conoscere la bellezza che, in qualsiasi modo sia espressa, è l’unica vera fonte di felicità in questo mondo.