giovedì 9 gennaio 2014

E SE DOMANI (l'ardua strada delle riforme)

"E io chiedo agli economisti politici, ai moralisti, se hanno già calcolato il numero di individui che è giocoforza condannare alla miseria, al lavoro eccessivo, alla demoralizzazione, all'infanzia perenne, alla più abietta ignoranza, alla disgrazia ineluttabile, alla penuria assoluta, per produrre un ricco."
Con questa domanda retorica Almeida Garrett, scrittore e uomo politico portoghese vissuto nelle prima metà dell'ottocento, poneva la questione della iniqua distribuzione della ricchezza nella società del suo tempo. Non so se all'epoca esistessero strumenti idonei per formulare una risposta numerica all'interrogativo e se, eventualmente, qualcuno lo abbia fatto, ma la necessità di porre la questione derivava dalla consapevolezza che si trattava di grandezze enormi, socialmente inaccettabili.
Oggi la domanda è oltremodo attuale. Viviamo in un contesto socio- economico diverso, formalmente democratico, ma condizionato da poteri enormi che si intrecciano a formare una inesorabile rete da pesca nel grande mare dell'umanità: dal paradosso cinese alle favelas brasiliane, dal terrorismo islamico alla questione palestinese, dalla pretestuosa guerra irachena alla repressione siriana e così via guerreggiando, tutto è funzionale alla conservazione di preminenza da parte delle oligarchie economiche mondiali. Ma di fronte a questa situazione e ad una crisi economica di vaste proporzioni e ad una deriva politica che occorre in qualche modo arginare, soprattutto in Italia, non si può evitare di interrogarsi sul modello economico, sociale e culturale che le comunità hanno necessità di costruire per diritto di sopravvivenza.
Alla domanda di Garret possiamo oggi fornire una risposta precisa. Da uno studio della Banca d'Italia, reso noto nel marzo del 2012, risulta che nel nostro Paese le dieci persone più ricche posseggono i beni di tre milioni di italiani poveri! Si, 10 su 3.000.000! Potremmo quindi rispondere che in Italia per fare un ricco dobbiamo condannare alla povertà trecentomila persone, una città come Venezia. Ma a rendere ancora più odiosa la cosa è l'indifferenza o la connivenza della politica che, oltre a non promuovere adeguati provvedimenti di contenimento delle ingiustizie sociali, ha tollerato, e spesso incentivato privilegi e furfanterie di ogni genere (top-manager che mandano in dissesto le aziende e se ne vanno con liquidazioni milionarie, dirigenti che in venti anni vedono gonfiarsi le proprie retribuzioni da 25 a 400 volte quella dei loro dipendenti, tesorieri di partito che, a vantaggio personale o a copertura di consorterie, accumulano patrimoni e gozzovigliano utilizzando i copiosi e ingiustificati rimborsi elettorali, ecc. ecc. - è superfluo qui ricordare tutto quello che quotidianamente i media ci raccontano).
In Italia c'è molto da fare. E i partiti cosa fanno? Ma i partiti di sinistra cosa fanno? Parlano di riforme, ma di quali riforme? Dimenticano che il termine "riformismo" è stato coniato per identificare lo strumento da utilizzare per costruire il socialismo con metodi non rivoluzionari. Successivamente per riforme si è inteso riferirsi a trasformazioni profonde dell'ordinamento sociale, ma oggi invece s'è confuso questo termine con un normale prodotto legislativo per cui tutti, chi più e chi meno, si possono definire riformisti ( abbiamo avuto persino la riforma Gelmini!).
Le riforme, quelle vere, comportano costi economici e sociali che a qualcuno debbono essere accollati. Ma se a pagare sono sempre gli stessi, le categorie più deboli, più agevolmente attaccabili, meno abbienti, ci si dovrà pur far carico di contrastare e porre rimedio a questa iniquità. Né è possibile accettare, nella migliore delle ipotesi, che a pagare non sia nessuno, perché ciò vorrebbe dire che si spacciano per riforme aggiustamenti tecnici che riforme non sono.
E i partiti cosa fanno? Prendiamo il PD, che dovrebbe essere l'asse portante di un governo delle sinistre o, più probabile, di centro-sinistra, ma forse di centro-sinistra-centro (tanto per orientarsi come con una bussola). Esso è nato con il dichiarato intento di rappresentare la vocazione riformista della tradizione politica italiana di impronta laica, socialista e cattolica. Quasi una riedizione del "compromesso storico", il progetto di Berlinguer teso ad unire le forze popolari di sinistra e di centro su posizioni autenticamente democratiche per scongiurare soluzioni autoritarie e tentazioni golpiste. La vicenda cilena aveva accelerato quella elaborazione, ma la differenza con la proposta del PD è sostanziale: mentre per Berlinguer il nuovo corso politico, sostenuto da un crescente consenso verso il PCI, sarebbe dovuto avvenire con un coinvolgimento emotivo delle masse popolari, rappresentate dai maggiori partiti e che sarebbero state artefici e beneficiarie del patto sociale (un sogno irrealizzato), invece il PD è stato creato con una fusione a freddo tra nomenklature e apparati politici distanti dalle istanze popolari, e distanti perché impegnati esclusivamente a intessere rapporti di potere, e per di più con una alleanza limitata ad una parte minoritaria della ex DC. E così il PD arranca tra contraddizioni interne, esaltanti primarie e brucianti sconfitte. Utilizza il riformismo come paravento per nascondere un deserto di progetti e di ideali. E Renzi? Bah, la strategia forse è buona, ma la meta?
Si può anche decidere di abbandonare definitivamente l'idea di un modello socialista, ma allora lo si dica chiaramente e non si mascheri la mancanza di riferimenti con la foglia di fico del riformismo (emblematica è la vicenda della collocazione del PD nell'ambito dei gruppi del parlamento europeo).
Alessandro Gilioli, nel suo pamphlet Chi ha suicidato il PD, con riferimento al veltroniano "ma anche", sostiene che a mescolare l'acqua calda con quella fredda si ottiene soltanto acqua tiepida. La cosa è ovvia, ma non necessariamente inutile. A volte può servire anche l'acqua tiepida, però per cuocere la pasta occorre l'acqua bollente e per raffrescare la frutta occorre l'acqua fredda. Il problema sta tutto qui: non si può essere sempre tiepidi, moderati, ambiguamente pragmatici.
Ripensare il modello economico, i caratteri della società, la qualità dell'ambiente e delle persone prima che il tessuto sociale venga definitivamente corrotto è un imperativo. Qualcuno può ritenere che si tratti di rigurgiti ideologici? Parlare di nuovi equilibri, nuovi orizzonti dove creare condizioni più umane, più giuste, è un fatto ideologico? Io direi piuttosto, e più semplicemente, che è un dovere politico cui adempiere. La sinistra non deve per forza coincidere con posizioni ideologiche, però non può rinunciare al ruolo storico di farsi carico del cambiamento.
È vero, nessuno può chiamarsi fuori. Separare con nitidezza le responsabilità è impossibile. Oltre alle gravi colpe della politica quasi tutti, o forse tutti, direttamente o indirettamente, chi poco e chi molto, abbiamo contribuito ad aggravare i problemi della nostra società: in cabina elettorale o astenendoci dal voto, con l'evasione fiscale o non pretendendo lo scontrino fiscale, con i concorsi truccati o trovando una corsia preferenziale per un esame clinico, con l'abusivismo edilizio o con l'inquinamento, con il massimalismo o con l'indifferenza.
C'è un presente che non ci piace e in cui stentiamo a riconoscerci, anche se abbiamo contribuito a costruirlo. La consapevolezza di questa corresponsabilità deve costituire la forza per un impegno morale e sostanziale verso il rinnovamento. Certo non siamo tutti uguali, le diversità comportano inevitabilmente differenze di condizione, anche economica, ma ciò che la sinistra non può accettare è che in ragione di modelli socio-economici quelle diversità vengano accentuate o utilizzate per compiere atti di sopraffazione.
Bisogna costringere le forze politiche, o i residui brandelli di esse, a prendere atto che occorre una svolta decisa e decisiva. Un nuovo pensiero deve farsi strada e va sospinto: e se il futuro veramente stesse soltanto in una compiuta giustizia sociale? Ripartiamo da qui.

Ruggero Capulli

1 commento:

  1. Egregio Ruggero, utile ricordare cosa si intendesse con la parola riformismo. Purtroppo come è noto le parole rispecchiano il momento nel quale vengono coniate o inizia il loro utilizzo, trascorre il tempo, cambiano le persone e le situazioni, come fa una parola a conservare il significato? La sinistra, quella organizzata nei partiti, lo è per derivazione di nascita o perché pratica in modo convinto e deciso il sociale. Come e con chi ed in quanti definire un pensiero comune che coinvolga lo stressato residente, per sospingere i "brandelli" ad operare per una contemporanea sinistra? Come coinvolgere il residente di Grottaferrata se non disegnando un quadro diverso e quasi personale per partecipazione? Lascio le domande pur sapendo che occorrono risposte; d'altro canto se non si trova la forza, la decisione ed il coraggio nei periodi di crisi ideologica significa che il peggio deve ancora manifestarsi. Unione, Unione, Unione.

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